“Per questo temo il trucco.
Temo che ci si butti su piste “ghettizzate” già superate in tutta Europa,
utili solo a togliere la bici dalle scatole degli automobilisti.
Ho anche paura che ci si faccia scudo del mezzo ecologico
per buttare soldi in inutili mega-progetti,
o peggio che si faccia quella scelta solo per fare, senza crederci, qualcosa di sinistra.
Ho alcune convinzioni di ferro.
La vera rivoluzione non è creare riserve indiane per turisti,
ma rendere possibile l’uso della bicicletta nel quotidiano.
Sogno pendolari sul sellino, mamme che vanno in bici a prendere i figli all’asilo,
manager con gli incartamenti nelle sacche del mezzo gommato”
[P.Rumiz – La Repubblica 2014.20.02]
Sul Tirreno di oggi è uscita un’altra pagina dedicata alle prospettive future della città:
Un annuncio che lascia a metà tra lo speranzoso e il perplesso, circa la metodologia di lavoro e le soluzioni che si prevede di adottare.
Da un lato infatti è rincuorante osservare che qualcosa si muove, soprattutto nell’ottica di messa in sicurezza di criticità alte come quelle dell’incrocio di Via Forlanini e di Via Salivoli (per cui il senso unico per le auto e il marciapiede non sono un’opzione: sono una necessità). Dall’altro però sconcerta un po’ l’approssimazione con cui viene trasmesso l’annuncio relativamente alle questioni pratiche: “ciclopedonale come modello”
Tralasciando quanto dichiarato dallo stesso assessore in sala consiliare circa la volontà di evitare interventi singoli slegati da un contesto più ampio di piano urbano strutturato (con riferimento proprio all’ipotesi di una rotonda all’incrocio con Via Forlanini), approfittiamo dell’assist fornito dal giornale per agganciarci all’articolo sulle ciclabili bidirezionali e per chiudere il quadro affrontando una disamina di un affaire annoso, che rientra sotto l’etichetta di ciclopedonali.
Ora, solitamente il sottoscritto tende a riassumere la faccenda – in maniera scherzosa – in una frase semplice, diretta ed efficace:
le ciclopedonali sono il Male
con il pensiero che corre immediatamente ai nostri vicini di casa a San Vincenzo, e all’impraticabilità (oltre alla pericolosità) della pista sanvincenzina da parte di chiunque pensi di utilizzarla in maniera diversa dal passeggio domenicale o dai trasferimenti alla spiaggia dei vacanzieri.
Ma l’occasione è interessante, e mi sembra doveroso approfondire ulteriormente. Perché la sensazione forte è la solita che ricorre spesso: chiunque si stia occupando di mettere in piedi certe proposte, o di richiederle ai tecnici, o di comunicarle alla cittadinanza, nella migliore delle ipotesi ha dei problemi a spiegare le reali intenzioni di un piano che in realtà (ci auguriamo) è geniale e risolutivo. Nella peggiore, non ha idea di cosa significhi spostarsi in bicicletta in città. Di sicuro non ha mai fatto Via Salivoli dalla spiaggia ai lombriconi, e non conosce il Vallone come strada alternativa percorribile, ma questa è un’idea che al momento terrei a margine.
In ogni modo, il punto di fondo è che dovrebbe essere obbligatorio fare al minimo tre spostamenti in bici a settimana per lavoro o per commissioni, se si vuole mettere mano alle infrastrutture ciclabili. Per capire i rischi, individuare le criticità, percepire la differenza tra le utenze veloci e quelle lente. E lavorare per le necessità di entrambe.

questo in città è il Male
Anche se in verità, per rendersi conto delle problematiche immediate che una ciclopedonale solleva, potrebbe bastare leggere la voce apposita su Wikipedia:
Percorsi ciclo-pedonali o promiscui
In certi contesti si tende a far confluire su una infrastruttura comune pedoni e ciclisti, mantendo un buon grado di protezione rispetto al traffico motorizzato. È il caso di percorsi inseriti in aree verdi in cui non è consentito l’accesso ai veicoli a motore, con uso prevalentemente ricreativo, ed anche gli itinerari cicloturistici, per es. su argini di fiumi, valli ecc. sono di questo tipo. Tali percorsi promiscui ciclo-pedonali si riscontrano anche in ambito urbano, talvolta per motivi di spazio insufficiente alla separazione, ma il loro utilizzo è controverso: tendono a mettere in conflitto pedoni e ciclisti, annullando il vantaggio del percorso riservato soprattutto nei casi in cui ambedue i flussi, pedonale e ciclabile, siano intensi.
Quello che si teme di più insomma, visti gli spazi esigui, è una replica ristretta di una bidirezionale su un lato stile via Amendola, con l’aggravante del percorso promiscuo.
All’affacciarsi di questa ipotesi, che mi auguro sia frutto di un’incomprensione, in merito al doppio senso torna attuale (prima del previsto) anche l’articolo tradotto e pubblicato ieri: secondo Colville-Andersen, la pista a doppio senso si può realizzare in mancanza di intersezioni (per cui il tratto lungomare ci sta tutto). Il problema è che il rischio che sia invasa dai pedoni diventa elevato quando il traffico di biciclette è scarso.

anche nelle foto casuali pubblicate sul Tirreno in occasione di altri articoli si osserva il fenomeno
Il fenomeno avviene già, nonostante si tratti di percorsi separati, sul tratto esistente in via Amendola. Tratto che dà sicuramente lustro a uno degli scorci più belli della città (giustificandone il limite), ma presenta esattamente la criticità indicata: il daily commuter si ritrova a scansare pedoni e animali (senza contare le auto che sporgono da un lato), e per toglierlo di mezzo dal traffico veicolare si ritrova a essere detestato, o visto come pericoloso (fucilatore silenzioso è uno degli epiteti più gentili attribuiti a chi scrive) da chi si sposta a piedi. Non proprio il massimo insomma, per rendere il pedalare in città un qualcosa di allargato e condiviso.
Soluzioni di questo tipo infatti funzionano solo quando hai già un traffico di bici intenso da gestire (ed in realtà meno caotiche della nostra), funzionano meno come “startup” per far partire l’utilizzo della bicicletta come mezzo di trasporto. E se Via Amendola ha l’attenuante della larghezza e l’incentivo del percorso con vista (per cui avrebbe sicuramente un senso proseguirlo sul lungomare), applicarlo in Via Salivoli, un budello stretto che non giustifica in alcun modo la promiscuità, lo trovo sostanzialmente privo di senso.
Il discorso sulla separazione o preferenziazione dei percorsi, inoltre, è già stato affrontato sul piano tecnico anche in Italia, da persone più esperte di me in materia. Basta, per l’occasione, a ulteriore supporto di quanto affermato già sull’enciclopedia online (di cui per primi ammettiamo i limiti, ma che abbiamo citato per l’immediatezza), riportare uno dei punti dell’analisi di Matteo Dondé, con relativi riferimenti alla UE:
Per una questione di conflitto con i pedoni: tale soluzione andrebbe valutata sempre con grande attenzione, dato che il conflitto tra pedoni e biciclette è spesso maggiore di quello tra queste ultime e le automobili e che, in genere, le piste separate sono realizzate in prossimità con i percorsi pedonali. Nel caso poi di percorsi promiscui, tale soluzione dovrebbe essere adottata per offrire un buon livello di protezione alle categorie di ciclisti più ‘deboli’, mentre dovrebbe essere preclusa alle altre categorie.
La Comunità Europea in particolare, nelle sue considerazioni a proposito delle piste ciclabili, e vista anche l’esperienza maturata nei paesi nordici, distingue due grandi categorie di ciclisti: le tartarughe e le lepri. Le Tartarughe (anziani, genitori con bambini, etc…) sono quei ciclisti che non hanno particolare fretta, richiedono una protezione maggiore e utilizzano le piste per il tempo libero, per andare a fare la spesa, per andare a scuola, mentre le lepri (ragazzi e adulti) sono i ciclisti che vogliono muoversi velocemente, che richiedono una protezione minore e che utilizzano la bicicletta per andare a lavorare, alla scuola superiore, muoversi agevolmente all’interno della città e del proprio quartiere. I ciclisti tartaruga quindi trovano più sicuro muoversi in sistemi separati, peraltro di raggio locale, che in effetti affrontano con velocità e comportamenti maggiormente compatibili con le criticità sopra evidenziate, e possono in particolare meglio gestire una maggiore promiscuità con i pedoni.
È necessario quindi considerare tutte le categorie di ciclisti per evitare pericolosi conflitti e incrementare l’utilizzo del mezzo a pedali da parte di tutti.
E se non si avesse voglia di leggere tutto quello che è riportato nell’articolo sopra, basterebbe aprire i link e guardare le figure, per rendersi conto di quelle che sono le realizzazioni alternative nel resto d’Europa. Senza bisogno di sperimentare. Senza rischiare di condizionare in via definitiva la mobilità ciclistica in senso ricreativo, scoraggiando di fatto l’utilizzo della bicicletta come mezzo di trasporto.
In conclusione, senza pregiudizi su quello che in fondo è solo un intervento informativo generico, quanto sopra vuole essere uno spunto. Una segnalazione del fatto che sentir parlare (ancora, alle porte del 2015) di ciclopedonali in ambito urbano un po’ mette timore. E un tentativo di spiegarne il motivo.
Un invito a approfondire certe finezze progettuali e comunicative, perché se la città si appresta, come nelle intenzioni dichiarate, a diventare ciclabile, sarebbe bello se per farlo davvero si pensasse a percorsi privilegiati, dedicati, e non segregati dal flusso di auto. Sarebbe vitale che gli spostamenti fossero possibili in maniera rapida, cosa che una ciclopedonale di fatto impedisce, trattandosi – per come viene percepita nel mondo reale – di poco più che un marciapiede allargato. Sarebbe bello veder copiare paesi civili. Adottare soluzioni pratiche, economiche, efficaci e improntate alla funzionalità prima che all’estetica.
O anche solo vedere ascoltata la voce di chi in bici ci si sposta davvero, venire con noi a lavoro, provare ad accompagnarci i figli. Rendersi conto dei vantaggi, del piacere, del risparmio.
E toccare con mano quelli che sono i rischi e le problematiche che scoraggiano molti dal prendere la bici per gli spostamenti in città, o che acuiscono il conflitto con le altre utenze deboli, alimentando uan guerra tra poveri che sarebbe prioritario evitare.
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